Fibrosi Cistica Emilia

Come un fiore di maggio

di Patrizia

 

Sono nata sotto le luci dell’equatore nel corno d’Africa io, in un posto dove – come dice Concato – c’è sempre il sole. Quel sole mi ha sempre contraddistinto. Sui documenti il mio nome è Patrizia, per i parenti e amici intimi sono Titta, (o Mahaar), per la scienza sono Delta FC 508: un codice, una targa. La mia.

Ho vissuto la mia infanzia e la adolescenza in una terra speciale di spezie ed essenze che mi ha accolta e cullato con i suoi colori. L’ho lasciata per curarmi, per avere un futuro, per studiare, per diventare grande e cantare della mia rivincita.

Successe dopo che mio padre leggendo per caso un settimanale, si soffermò su un articolo di medicina che parlava di una rara malattia mortale, agli esordi degli studi in quegli anni, la cui sintomatologia somigliava in modo impressionante alla mia, ai miei altalenanti  difetti fisici: malesseri e sintomi che nessun medico riusciva a inquadrare, né a collocare: febbre alta, tosse persistente, bronchiti, polmoniti croniche, infiammazioni, dimagrimento, malassorbimento, ipoglicemie, infezioni atipiche… Tanto e molto di più.

Facemmo la valigia in poche ore: laggiù nel Nilo blu non c’era sanità pubblica né ricerca; chi nasce con patologie come la mia ha bisogno di cure adeguate, indagini mirate e quello non è il posto giusto per sopravvivere. Così, abbracciata alla vita e a mia madre, senza grandi pretese né promesse, ma con tantissimo entusiasmo, a due anni e mezzo, partii per l’Italia diretta a Genova, al Gaslini, l’ospedale pediatrico tra i pochi che allora studiavano l’origine e il decorso e combattevano i primi casi di questa patologia sconosciuta, all’epoca incurabile e inaffrontabile.

Non erano certo i leoni e le iene a farmi paura, ma lei: questa malattia bastarda che si presenta senza fare rumore che ora ha un nome da diva – fibrosi cistica – in passato ne aveva uno che sembrava una parolaccia:muco viscidosi. Che schifezza. Non l’ho mai voluto pronunciare a voce alta: la volevo ignorare, silenziare, mettere in pausa. Lei ha cambiato la mia vita rubandosi i giorni più belli, i pensieri di bambina, i giochi, il mio tempo libero, i miei sogni… Mi è e sempre stata avvinghiata come un serpente, un profumo, una canzone per la vita, una sposa, la migliore amica.

Solo il doverla nominare era come motivare un lacerante dolore e svelare una verità che mi ha sempre fatto paura: quella di perdere tutto, soprattutto le persone vicine.

Da quando nasci s’impossessa del tuo corpo, del tuo sonno, del tuo fiato, del tuo respiro; s’intromette tra te e i tuoi progetti, tra te e gli affetti, ti ruba l’aria, ti ribalta dai dolori, disturba ogni organo e ti lascia senza carne e senza fiato. Talvolta si dimentica di te ed è come se ti lasciasse in pausa e tra le braccia di cure snervanti: una, due, tre volte il giorno.

Spesso per me non c’è stato Natale o carnevale, ma solo le mani di medici, infermieri, specializzandi e stanze bianche e sterili, luci al neon negli occhi, sondini, drenaggi, antibiotici, radiografie, tac, percussioni, spirometrie saturimetri, mascherine, ossigeno, flebo, siringhe, paura e solitudine! In quei momenti ho percepito di non essere perfetta, molto fortunata, certo, ma sbagliata.

I primi anni sono stati faticosi da vivere e superare; crescendo i problemi cominciavano a diventare montagne giganti e per curarmi dovevo andare avanti e indietro tra i due continenti. Così a sedici anni mi sono trasferita stabilmente in una città vicino ad un centro specializzato e ho iniziato la seconda parte della mia vita in una regione che non conoscevo ma promettendo a me stessa he un giorno sarei tornata in quella terra di incensi di mirra per curare gli altri, salvare vite, o forse anche come musicista, per restituire un canto.

Dall’equatore alla pianura padana… Come dice quel saggio di Coelho “la vita è tutto ciò che non hai programmato”. Così grazie a Dio, alle cure di mia madre e i sacrifici di mio padre, uniti ai miei sono ancora qui.

In questi ultimi anni sono riuscita reinventarmi spesse volte, impegnandomi a risalire ogni scalino con forza, emozionarmi ancora, a non camminare più a testa bassa, aspettando una promessa di guarigione.

E in un giorno di maggio, all’improvviso, dopo anni, di silenzio e rassegnazione, ecco che per df508 appare una guerriera: una nuova scoperta scientifica, una pillola magica che giorno dopo giorno facilita il respiro, mi schiarisce la voce e collabora coi i miei desideri. I miei progetti riprendono quota: ricomincio a cantare per esprimere come so la mia personale vittoria e piccola rivincita. Così, sebbene non possa ancora combattere il mio gene difettoso né sostituirlo, tutto “questo” per ora mi basta

Spero che per i prossimi giorni e quelli futuri la mia voce potrà uscire ancora più libera e sincera, forte.

Per cantare la libertà, i cieli turchesi dell’africa, il volo delle capinere sul lago Shala.