di Antonella Bodini
Sono nata una domenica mattina nell’estate del 1979. Ho la fibrosi cistica e questa è la mia storia.
La fibrosi cistica è la malattia genetica rara più diffusa e all’epoca non si sapeva molto a riguardo. I miei genitori, però, la conoscevano bene perché la prima figlia, mia sorella Alessandra, è morta tre giorni dopo la nascita a causa delle complicanze di questa malattia.
Il test del sudore, l’esame che viene fatto per stabilire la patologia, sentenzia fibrosi cistica e il centro di cura di Parma, dove tutt’ora sono seguita, mi prende in carico. Da allora convivo, più o meno pacificamente, con questa malattia. Una malattia complessa che richiede tanto impegno nella cura, che spesso detta i ritmi della tua vita e talvolta prende il sopravvento. Antibiotici, aerosol, fisioterapia respiratoria, impegno e costanza le priorità, anche se devo dire che i primi anni non sono stati così faticosi. Il primo ricovero a 13 anni: sapevo mi sarebbero aspettati quindici giorni di ospedale con cicli di tre endovene al giorno per cominciare a sfiammare i polmoni, l’organo solitamente più compromesso. Gli anni della adolescenza, tra alti e bassi emotivi, il percorso scolastico, il liceo e laurea. La famiglia, il fidanzato, che poi diventerà mio marito, gli amici, lo sport e lei sempre lì ad accompagnarmi con ricoveri, terapie, una farmacia ambulante ogniqualvolta mi spostavo e la casa trasformata in un ospedale da campo al bisogno. Ho rinunciato a qualche viaggio, ad alcune opportunità lavorative, a qualche festa perché non si poteva rischiare, ho studiato durante i ricoveri per non rimanere indietro. Montagne di appunti e compiti che mi aiutavano a riempire le giornate in ospedale, dove la solitudine la faceva da padrone, ma mi offriva l’opportunità di guardarmi dentro per essere grata alla vita. Nonostante tutto. Sì perché se mi guardo indietro non ho rimpianti e forse la prospettiva peggiore è sempre quella di chi guarda dall’esterno.
Gli anni passano, la malattia prende sempre più spazio, le terapie richiedono più tempo, le pastiglie aumentano, i ricoveri sono più lunghi e più frequenti. Gli antibiotici per bocca fanno sempre meno effetto, comincio ad aver bisogno di ossigeno, l’aria spesso manca e i miei polmoni faticano. Non perdo il sorriso, tutto è ormai una routine alla quale sono perfettamente abituata.
Tra il 2018 e l’inizio del 2019 quattro ricoveri, lunghi, pesanti, l’ultimo di sette settimane, il più duro. La mia capacità polmonare si abbassa, recuperare è difficile. Metterò una pezza anche stavolta mi dico. Le cose non vanno proprio così; mi imbatto nel più temibile nemico da battere che noi malati di fibrosi cistica possiamo incontrare e allora capisco che, nonostante il mio impegno e la mia forza, la malattia fa quello che vuole. Ti prende il respiro e ti butta a terra.
Comincio ad avere paura, paura vera, di perdere tutto e di non farcela. Sono mesi difficili, fatico a tornare a quella leggerezza che mi ha sempre accompagnata. Poi mio marito, la mia famiglia così caparbia e tenace, gli amici, il tempo, i miei medici e i miracoli della scienza fanno il resto. Nel gennaio 2020 l’ultimo ricovero, si comincia a parlare di trapianto di polmoni. Vediamo come va e poi ci penseremo, mi dicono al centro. Nel maggio 2020, però, arriva dall’America Trikafta, prodigio della scienza e della ricerca e la giusta ricompensa alle preghiere di mia mamma. Va a correggere il difetto genetico di base alleviando di fatto i tanti sintomi che solo chi convive con questa malattia può conoscere. Torno a respirare senza bisogno di lunghi ricoveri, la tosse sparisce, si riducono le pastiglie, viene tolto parte dell’ossigeno, il test del sudore si negativizza e recupero energie.
Lei è sempre lì, non è sparita del tutto. Forse non lo farà mai. Per ora tace, ma mi ricorda la fatica fatta per conquistare ogni singolo respiro. I giorni passati in casa, la sofferenza, ma anche le conquiste, l’affetto ricevuto e i sorrisi che, nonostante tutto, non sono mai mancati.